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"Breaking the Habit", un'analisi di Gundam Iron-blooded Orphans

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A un mese dalla conclusione della nuova serie TV targata Gundam, lasciatemi l'ambizione di scrivere qualche appassionata parola su una delle migliori serie gundamiche da decenni a questa parte.

In molti tendono spesso a confondere l'"originalità" come una qualità assoluta in un prodotto narrativo di intrattenimento. Considerando che Pirandello faceva sbraitare al suo Enrico IV che "rimasticate la vita dei morti" per sottolineare da quante e tali convenzioni Ú composta la nostra stessa esistenza che a noi tanto piace pensare unica e individuale, a ben guardare direi che la bontà di una serie non la fa tanto l'originalità a livello di "ingredienti", che alla fine sono sempre quelli dalla notte dei tempi, quanto a livello di "sapore", che Ú quello che ci solletica il palato scatenandoci emozioni.
In un'interessante intervista parzialmente tradotta Mari Okada, la sceneggiatrice che ha scritto Gundam Iron-blooded Orphans a braccetto con regista e "Hajime Yatate", preme molto su come per questa nuova serie si sia cercato di omaggiare il lavoro di Tomino premendo sui punti essenziali della sua narrativa; il riferimento diretto più istantaneo Ú sicuramente da ritrovare nella denuncia sui giovani costretti ad andare sul campo di battaglia, di come questa situazione li costringa ad affrontare perdita, dolore e spesso sconfitta, nel suo senso più acuto ed intimo.


"Mobile Suits con nomi di demoni si stanno radunando nella Brigata Tekka.
Ho un brutto presentimento..."
Merribit Stapleton


Molti sono gli ingredienti in comune con le altre serie gundamiche, ma al tempo stesso questi stessi stereotipi sono fortemente rimaneggiati, ed Ú quello che fa scattare l'interesse: Ú da questo che vediamo la bravura del cuoco e la bontà della sua cucina, quel saper andare aldilà della "copia di una copia" a cui il nostro cervello si sta ormai sempre più assuefacendo in questo franchising.
A prima vista, che poi ammetto essere stato quello che ha istantaneamente catturato il mio "superficiale" interesse, ho visto molto delle innovazioni introdotte da Gundam Wing in questa serie: non c'erano poteri strani a segnare il destino dei protagonisti, c'era una complessa situazione socio-politica e i Gundam erano sì armi, ma armi infuse di una forte suggestione simbolica e storica.
C'era il geniale combattente silenzioso, l'eroina volenterosa ma "ignorante delle cose del mondo", c'era un nemico fortemente militarizzato con una forte connotazione nobiliare ed elitaria.
C'erano anche tantissimi deja-vu più o meno legittimi, un legame tra protagonisti che faceva molto Gurren Lagann, un "gioco dei troni" che faceva molto Il Trono di Spade, spruzzate degli scenari post-apocalittici degli anni '80, dei drammi borghesi di fine secolo, dei romanzi di formazione dell'800.
Ma ci sono anche moltissime "discrepanze" da quello che ci saremmo aspettati una volta entrati in scena certi sapori. Non c'Ú in realtà niente di nuovo, niente che non conosciamo già o che non abbiamo già visto da qualche altra parte. Semplicemente, quando ci aspettiamo un certo accostamento questo ci viene negato, invertito o trasformato in qualcos'altro.

Abbiamo un protagonista, Mikazuki, apparentemente distante, apatico, "incompleto". Ci aspettiamo una sua maturazione durante la serie ma questa non avviene. Per dirla alla Okada, "c'Ú un buco nel protagonista", e questo Ú evidente, anche alla luce del finale: Mikazuki sceglie di combattere perchÚ Ú l'unica cosa che sa fare. Che sia annientare, proteggere o garantire un futuro a chi ama, questo può passare solo attraverso il campo di battaglia, l'unico su cui può ancora camminare senza difficoltà.
Abbiamo poi un co-protagonista, novità assoluta in una serie di Gundam, Orga, "il leader". Mentre pensiamo di aver già inquadrato il personaggio, durante la serie veniamo però a conoscere le sue insicurezze, la sua fragilità, il suo "dipendere da chi dipende da lui", in un'infinita battaglia contro la negazione dei propri limiti. E' un personaggio "a sangue caldo", che in quel sangue si ritrova agonizzante: Ú un pugno nello stomaco come alla fine "il luogo" dove aveva promesso di portare la sua famiglia si rivela essere proprio il punto di partenza, Marte, trasformatosi in una tomba.
Credo che Iron-blooded Orphans sia una delle serie più riuscite per quanto riguarda il ritratto perfettamente corale dei personaggi: non siamo di fronte a semplici stock characters, il bellimbusto spensierato, la "nemesi" del boss, il ciccione, il tizio silenzioso, il ragazzino piantagrane... Ogni personaggio ha una caratterizzazione precisa, pregi e difetti, un dramma interiore cui cerca di porre rimedio nei suoi limiti. Sono circondati da altre "persone" esattamente come loro, che condividono lo stesso legame e lo manifestano in maniera più o meno palese.
Un punto in favore anche per McGillis: lo abbiamo subito riconosciuto come il Char della serie, per poi ritrovarcelo Treize e farlo finire come una sorta di Ali: nonostante lo abbia odiato a morte, mi Ú piaciuta molto questa inaspettata "ingenuità", come si sia creato un mondo di valori totalmente fuori dalla realtà e come abbia cercato, senza successo, di applicarlo alla sua triste, vuota esistenza, nel tentativo di renderlo "reale".
Un altro personaggio degno di nota per il suo ruolo speculare Ú quello di Gaelio: anche qui, diamo per scontato che si tratti di un Garma, l'amico sempliciotto tradito dal carismatico antagonista mascherato, poi veniamo smentiti con la rivelazione che Ú invece lui il vero personaggio mascherato-- Per poi rivelarci che sì, era davvero solo una maschera quella che indossava, e Gaelio tutto sommato Ú proprio il sempliciotto che credevamo che fosse. E come Julietta ne siamo probabilmente un pò delusi, ma forse no.

Ecco perchÚ ho intitolato questo articolo "Breaking the Habit". Questa serie, pur utilizzando caratteristiche note e ultranote, le utilizza a suo piacimento e a nostro "discapito", mischiando le carte in tavola, e aiutandoci ad appassionarci non attraverso la tipica narrazione fatta di famigliarità e citazioni tipica di Gundam, ma di fatto alienandoci da facili previsioni.
In questo modo si finiva ogni settimana a discutere più o meno freneticamente della puntata appena trasmessa e a prevedere cosa sarebbe accaduto in seguito.

Ho spesso sentito definire questa serie come realistica. Personalmente non penso sia realistica in senso stretto. Anzi, Ú molto drammatizzata ed emotiva, gioca con una certa spregiudicatezza con le emozioni dello spettatore, spesso irritandolo: il Post Disaster Ú un mondo cinico, non realistico. Fosse realistico sarebbe di certo molto più noioso.
Qui vince non il più forte, ma il più furbo, non chi ha ideali e sogni, ma chi sa dove mettere i piedi; Ú un universo che punisce chi non affera la felicità quando se ne ha l'opportunità, chi cerca di sovrascriverlo con un codice d'onore o con una bella favola.
E' un mondo che non perdona avventurieri e principianti, e che ha davvero poco rispetto per quei "valori" che gli anime stessi c'hanno insegnato far grandi gli uomini.
...E a questo punto verrebbe pure da chiederselo no, "Ma cosa sta cercando di dirmi questa serie? PerchÚ guardarmi 50 episodi su questa banda di sfigati?!"

"Signorina Kudelia, in passato mi ha detto una cosa... Che vedendo cose nuove avrei ampliato le mie conoscenze e avrei potuto scegliere correttamente.
Penso di aver finalmente compreso cosa intendeva."
Takaki Uno


Facciamo allora un passo indietro e torniamo al messaggio di Tomino, un messaggio pacifico che ci mostra la stupidità della guerra proprio perchÚ filtrata attraverso gli occhi di giovani costretti a far parte di un conflitto contro la loro volontà.
Ed Ú proprio attraverso il perenne avvicendarsi dei conflitti che ci si rende conto della piccolezza non solo degli esseri umani, incapaci di decidere saggiamente sul loro futuro, ma anche di quegli stessi protagonisti che abbiamo imparato ad amare, che si ritrovano "congelati" in un susseguirsi di inevitabili battaglie che finisce per svuotarli sempre di più, come nel caso di Char Aznable nell'epilogo de Il Contrattacco di Char, ma anche dello stesso Amuro in grado di "autodefinirsi" pienamente proprio attraverso il sacrificio finale, in modo non poi così diverso da un Mika qualunque.

Ecco, credo che in questa particolare serie il discorso parta dallo sfruttamento dei bambini, degli "orfani", durante guerre più o meno dichiarate (pensate all'agghiacciante infanzia di McGillis, ad esempio), passi per gli "Human Debris", carne da macello priva di identità e dignità, per il sistema Alaya Vijnana che deturpa il corpo umano nel suo intimo aggredendone il sistema nervoso, per arrivare molto più in profondità, e prendere in esame il concetto della dignità umana.
Cosa ci definisce come esseri umani? Cosa possiamo fare per provarci tali..?
Come notava Cucubita commentando l'incapacità dei ragazzi del Tekka di gestire il proprio denaro, questi protagonisti "sanno troppo poco". Kudelia, che viene percepita come una "rivoluzionaria mancata" dalla lagna media perchÚ invece di armarsi di spada e sobillare la folla si apre l'aziendina immergendosi nel mondo della mafia e delle banche, in realtà ha capito il nocciolo del problema: educare per aiutare a progredire. Senza conoscenza ed educazione Ú facile chiudersi all'interno di uno steccato, non capire, non evolversi. E sicuramente essere contenti così. Questa Ú la vera condanna.

Questo vale per i protagonisti ma anche per i loro nemici. Non riescono a capire chi hanno di fronte, perchÚ fanno quello che fanno e ne hanno paura. Per questo decidono di sterminarli, di elevarli a capro espiatorio di un sistema sull'orlo del collasso prima e di lasciare che la loro memoria cada nell'oblio dopo. Credo sia la "paura di avere paura" che spinge Rustal a una scelta così ingiustamente severa, ma anche Carta e McGillis al loro sacrificio. O Gaelio a "resuscitare" forzatamente un amico perduto per far fronte ad un altro amico perduto.
Paradossalmente, quindi, forse Ú proprio nella confusione della brigata Tekka e nella paura del Gjallarhorn che i due gruppi esprimono al "meglio" l'umanità delle parti in campo. E soprattutto i rispettivi limiti.

Lo spettatore non Ú accompagnato lungo una risoluzione emotiva di un romanzo di formazione: in maniera decisamente più convincente di Tomino, gli autori di Iron-blooded Orphans ci mostrano tutti i limiti dei personaggi, e la vera incapacità di scamparla se si decide di seguire "solo una strada". E'un pessimismo che ci costringe ad aprire gli occhi, sugli amori mancati, i futuri negati, le consapevolezze smentite. E' una vera e propria catarsi destinata allo spettatore, costretto a giudicarsi attraverso le sventure o le aspirazioni dei protagonisti.
Il fascino del perdente Ú probabilmente insito nella cultura giapponese, ma credo che anche noi non abbiamo alcun dubbio sul fatto che i protagonisti di Iron-blooded Orphans possano essere definiti legittimamente eroi: pur disapprovando le scelte fatte, le prese di posizione e gli errori, riconosciamo nei ragazzi del Tekka quel certo tragico romanticismo, non perchÚ abbiano raggiunto quell'obiettivo che fin dall'inizio non era poi stato così chiaro, ma per il loro "tentativo", per aver provato ad alzarsi quando tutto intorno a loro gli gridava quale fosse "il loro posto": in mezzo al fango con cui tanto alla Okada (e a noi) Ú piaciuto giocare.

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